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Premio
Giornalistico/Letterario 2009 Carlo Marincovich
1° classificato: Decio Lucano “Quando le navi parlano…”
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QUANDO LE NAVI PARLANO, CANTANO,
S’INCAZZANO, QUANDO CAMBIANO SESSO E QUANDO MUOIONO
di Decio Lucano
Ho regalato ad un bambino biondo una bottiglia vuota e
il bambino l’ha presa con sé e l’ha portata sulla
spiaggia vicino al suo mondo di sabbia.
Io avevo messo nella
bottiglia un poco di me e il bambino stringeva forte la
bottiglia e i suoi occhi vedevano dentro il gabbiano, la
rondine, il merlo, il granchio, la lucertola, corse di
impàla, pesci grandi dal cuore in trasparenza, barche,
ancore, velieri che sfumano dietro banchi di nebbia,
frotte di beluga bianchi e zanne di trichechi che
spuntano in superficie tra i ghiacci.
Il bambino era felice per
tutto quello che vedeva nella bottiglia, pensava che il
mare fosse popolato di tutte quelle cose e aveva
cominciato ad amarlo. E non aveva paura.
Questo bambino, crescendo,
aveva scoperto che nella bottiglia non avevo messo gli
uomini e forse era per questo che non aveva paura. Le
storie che vi racconto sono vere anche se sembrano
idealizzate e favoleggianti come le canzoni; in realtà
il bambino, crescendo, era diventato un marinaio e aveva
fatto un’altra scoperta: le navi hanno sentimenti come
gli adulti (quelli buoni) e hanno un’anima: lo avevano
scritto anche Kipling e Conrad, ma queste cose le
conoscevano i capitani dei velieri, dei vapori fino ad
arrivare ai giorni nostri.
Che poi alcuni di questi
bastimenti sapessero anche cantare, forse lo sapevano e
lo sanno quelli che navigano a vela su grandi “barche”
con le antiche vele sui pennoni degli alberi .
Nel passato più recente i
britannici hanno scritto tante canzoni di mare, ma già
tra i vogatori delle navi romane il loro “canto
cadenzato” ritmato dal capo ciurma ci è stato tramandato
da un codice dell’Anthologia Latina… “Heia”, “Heia”,
forza dai, cominciava proprio così, per dare vigore alla
barca e sostegno alle loro braccia. E cantavano, chi
legato, chi no sui banchi dei remi.
Se gli equipaggi britannici
sono abituati a cantare canzoni marinare, non da meno
noi italiani possiamo considerarci carenti in questo
campo tra cui pescatori, corallari, battipali, di fiume
e di lago, musicisti di fama; ne sa qualcosa
l’ammiraglio Luigi Romani, studioso del mare nella
musica e ci sono libri come “I canti del mare nella
tradizione popolare italiana”, ed. Mursia, e “Piccolo
Canzoniere del mare”, emme edizioni, che creano una vera
letteratura musicale.
Le canzoni e le storie che
presento non sono allegre, riguardano alcune navi
destinate alla demolizione. Una volta i cantieri di
demolizione (La Spezia) erano stabilimenti industriali,
poi con la viscida concorrenza dell’Asia, lo scrapping
tramutato nel più elegante recycling (centinaia di $
alla tonnellata) è diventato un mestiere sporco e
disumano per i lavoratori e per le stesse navi. Queste
storie di navi “marchiate” sono vere, le navi parlano,
urlano: una s’indigna, l’altra si racconta, accomunate
da un malinconico destino, fino all’ultimo indomite. Le
hanno scritte e cantate degli uomini, ma viene il dubbio
che l’anima queste navi ce l’abbiano davvero. E poi,
ironia planetaria, proprio gli inglesi, qualche anno fa
per iniziativa dell’autorevole quotidiano dei Lloyd’s
decisero che le navi erano di “sesso maschile” e dal
grazioso she passarono all’ anagrafico he, snaturando
secoli di tradizione. Ma forse senza seguito nella
patria dello shipping.
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http://www.premiomarincovich.org/vincitori-della-1-edizione-15-aprile-2010/
https://www.altomareblu.com/quando-le-navi-parlano-cantano-sincazzano/
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CANZONI DI NAVI
So Far From The
Clyde
So far
from the Clyde è il titolo della canzone cantata da
Mark Knopfler (Album Get Lucky), settembre 2009. E’
una melopèa cantata dall’artista con sofferta
partecipazione accompagnato dalla sua band, lui stesso
suona la chitarra e traspare la rabbia, l’impotenza e
la malinconia per “l’accompagnamento “ musicale ad una
bulker ,(Knopfler usa ancòra il she), in una spiaggia
del Bangladesh. Ho tradotto liberamente il testo
inglese, ma voi potete vederlo e ascoltarlo su: www.youtube.com/watch?y=UrTOeje9Rhs.
Ringrazio l’amico Claudio Bavassano per avermi
segnalato questa canzone, forse unica nel genere.
“Avevamo cenato per
l’ultima volta prima dello spiaggiamento,
the day of the beaching,
un pugno di uomini a bordo,
era una nave condannata a
morte,
She’s a dead ship sailing
La cucina era vuota e sui
fornelli lo stufato era freddo.
E’ arrivata la sua ora
quando lei aveva imbarcato il suo boia,
il comandante lo aveva
pagato e si era fatto da parte,
con il vento e la corrente
la nave a tutta forza
orgogliosamente avanzava
verso la spiaggia
e la ciminiera soffiava
impetuosa.
Lontano dal Clyde
avevamo viaggiato insieme
e viaggiamo ancora
Quando la prua ha toccato
la terra
L’onda di riflusso l’ha
sollevata
E lei coraggiosamente si è
alzata
Per finire inerte sulla
spiaggia.
Sotto i loro piedi il
capitano e i pochi marinai
Sentivano il brivido della
sua chiglia in agonia
Più tardi il capitano
saluta il boia
E scende lentamente
Sulla sabbia bagnata e
sporca d’olio
Cammina chino verso l’auto
che lo
Porterà in città
attraversando
Il mattatoio delle navi
Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora
Gli uomini della spiaggia
strappano i suoi cavi
E fanno a pezzi le sue
boccaporte
Nulla è sprecato
Per pietà o rispetto
Gli uomini
s’accaniscono sulla sua carcassa
Con cannelli a fiamma e
accette
Lei assomiglia a una balena
Su una riva insanguinata
Spogliata
Lei sta ancora puntellata
Sulle sue ossa
Nell’umida avvelenata
spiaggia
E gli uomini trascinano
quel che resta di lei,
Verricelli, macchinari,
lamiere
Finchè rimane solo una
grande macchia sulla sabbia
Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora
Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora
Lo
scrittore, poeta e compositore di canzoni scozzese
Charles Mackay ( 1814-1889) scrisse: “ In natura
niente muore. Da ogni triste avanzo di rovine, rinasce
sempre qualche forma di vita“. Come dire: non
ignoriamo i principi della termodinamica!
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Le
FRANCE (una nave incazzata)
Nel
1975 un caro amico, il comandante Mario
Gandolfi, mi portò da Montecarlo un 45 giri dal
titolo Le France, un successo in Francia, cantato da
Michel Sardou (parole sue e di Pierre Delanoe)
musica di Jacques Revaux. Era il periodo nero per i
transatlantici, la concorrenza aerea era
imbattibile, ma alcune ”vecchie signore del mare“
non ne volevano sapere di essere messe in disarmo o
peggio demolite. La Francia, a differenza
dell’Italia, ha una tradizione di orgoglio nazionale
e un sentimento marinaro molto spiccato; quando mai
noi avremmo composto una canzone sulle nostre navi
passeggeri di linea che venivano vendute o
disarmate? ( Se mi smentite mi fate un regalo).
Meglio, quando mai avremmo immaginato che a cantarla
fosse proprio lei, la grande nave, una volta
orgoglio nazionale? Le France urla e s’indigna
con tutte le forze dalla baia in cui l’hanno
portata vicino a Saint Nazaire e non vuole saperne
più del suo paese natale… Se volete, andate a
cercare nel web Sardou.com, io l’ho tradotto
liberamente.
(cantata dal transatlantico FRANCE
in disarmo nel 1975 vicino a Saint Nazaire)
Quando penso alla vecchia inglese
Che si chiama “ Queen Mary “
Imbalsamata, lontano dalle sue
scogliere
Su una banchina della California.
Quando penso alla vecchia inglese
Invidio i relitti affondati
Delle navi al lungo corso che
cercavano un sogno
E non hanno rivisto il loro paese.
Non chiamatemi più “ France “
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “ France “
E‘ la mia ultima volontà
Ero una nave gigantesca
In grado di navigare mille anni
Ero un gigante ero quasi
Forte come l’oceano
Ero una nave gigantesca
Portavo migliaia di amanti
Ero la Francia, quel che ne resta
E’un corpo morto per i cormorani
Non chiamatemi più “ France”
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “ France “
E’ la mia ultima volontà
Quando penso alla vecchia inglese
Che si chiamava “Queen Mary”
Non vorrei finire come lei
Su una banchina della California
Che la più grande nave da guerra
Avesse il coraggio di
affondarmi
La poppa rivolta a Saint-Nazaire
Paese bretone dove sono nato
Non chiamatemi più “ France “
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “ France “
E‘ la mia ultima volontà
L’appello del France fu ascoltato a nord, raggiunse
una grande compagnia e il France fu acquistato e
adibito a crociere con il nome NORWAY, una
lunga stagione di giovinezza, di nuova avventura nel
business delle vacanze in mare. Solo qualche anno fa
la sua lunga carriera, più fortunata di tante
“vecchie signore“ italiane, si concluse non senza
problemi (non volevano farla passare da Suez, perché
portava il cancro dell’amianto), poi andò a morire
in qualche porto senza clamore, come fanno gli
elefanti e altri esseri nella natura.
La nave che respirava…, diceva il suo
comandante
QUEEN MARY
(era la vecchia signora di cui il
France temeva di fare la stessa fine)
9
dicembre 1967, ultimo viaggio della Queen Mary, uno
dei più prestigiosi liners mai costruiti (viaggio
inaugurale il 27 maggio 1936), Blue Riband nel
1938, fino a Long Beach, dove fu ormeggiata
definitivamente e adibita a centro di attrazione e
altri trattenimenti. Un gigante, ma non un
falansterio tipo livestock carriers delle navi da
crociera attuali.
L’ultimo comandante, il capitano John Treasure John,
disse che questa nave evoca un senso di
splendore e di stile raramente attribuito alle
moderne navi passeggeri.
Aggiunse
anche: “ Ella respirava, ella aveva carattere e
personalità, ella era soprattutto simile ad un reale
essere umano”.
Il ponte di
comando è rimasto preservato come una sala sacra in
cui riverberano i scintillanti ottoni delle ruote
dei timoni, delle cuffie e delle chiesuole delle
bussole, dei telegrafi di macchina, dei ripetitori,
dei portavoce, delle barre delle ringhiere di
separazione creando un’atmosfera di grande fascino
artistico e spirituale.
Ricordo
qualcosa di simile, dopo il restyling, nella Enrico
C. a Genova durante un ricevimento. Salii fino
al ponte, la timoneria, e rimasi senza parole:
nemmeno una chiesa ti riempiva di rispetto e di
riflessione che l’insieme delle “rappresentazioni“
nautiche smaglianti e scintillanti degli
strumenti per la navigazione ti coinvolgevano in un
abbraccio spirituale.
Anche qui la
mano dell’architetto e dell’armatore
avevano mantenuto uno stile umano e regale.
“Trattatela bene per la sua
natura femminile, non è una schiava”
Da Lo specchio
del mare di Joseph Conrad
“… Si, la nave vuole essere
trattata con riguardo, e con sapienza. Dovete
mostrare comprensiva considerazione per i misteri
della sua natura femminile, e allora vi starà al
fianco lealmente nell’incessante lotta contro
forze potenti, in cui la disfatta non è vergogna.
E’ una relazione seria quella che
un uomo stabilisce con la sua nave. Essa ha i suoi
diritti come se fosse capace di respirare e di
parlare; e, in verità, ci sono navi che, per
l’uomo giusto, faranno qualsiasi cosa meno che
parlare, come dice il proverbio.
Una nave non è una
schiava. Dovete renderle la vita facile quando
naviga, non dovete mai dimenticare che le dovete
la più piena partecipazione del vostro pensiero,
della vostra pazienza, del vostro amor proprio.
Se ricorderete questo obbligo,
naturalmente e senza sforzo, come se fosse un
sentimento istintivo della vostra vita interiore,
la vostra nave veleggerà, virerà di prora, correrà
in poppa per voi finchè potrà, oppure, come un
uccello marino che si mette a riposare sulle onde
infuriate, sosterrà alla cappa la burrasca più
forte che sia mai riuscita a farvi disperare di
vivere fino al prossimo sorger del
sole.”
(Testo inviatomi dall’architetto
Edoardo Miola)
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MI RACCONTO…
(di Eugenio C.)
Nel
numero di settembre 2006 la rivista TTM pubblicò nella
rubrica “Storie di navi famose“ l’”autobiografia” di
un transatlantico, anzi dell’ultimo transatlantico
italiano, la turbonave “Eugenio C.“ raccolta dal suo
comandante Piero Buatier de Mongeot. Lui la conosceva
bene, è stato l’ultimo comandante dell’Eugenio C. in
servizio di linea nel 1987 e ha raccolto i ricordi
della nave prima del 2004, l’anno in cui le ultime
lamiere sono state strappate al suo scafo nella
squallida spiaggia di Alang in India. Il comandante
Buatier ha scritto anche un libro di successo su
questo bastimento, appunto L’ultimo dei transatlantici
.
Del raccontoin
prima “persona“ della nave pubblichiamo alcuni brani.
“La mia storia
comincia a Monfalcone il 21 novembre del 1964. Là sono
nato, o sono stato costruito, come dicono gli uomini.
Mi hanno battezzato in quello stesso giorno. Per noi
navi la nascita si chiama “varo“ ed è,
tanto per intenderci, una scivolata in mare
lungo lo scalo.
Un grande
splash e ci si accorge di galleggiare. Il battesimo
precede la scivolata. Una bella ragazza o una signora
importante ti spaccano una bottiglia in testa.
Ho saputo che
di questi tempi le cose non si fanno più così: niente
scivolata in mare. Le navi vengono costruite a pezzi
in bacino. Quando i pezzi sono tutti saldati si
riempie il bacino e la nave galleggia.
Ho detto “sono
nato“, ho infatti un nome maschile: “ Eugenio”: eppure
essendo nave, sono costretto ad essere femmina. “A
ship is a she“. Lo dicono gli inglesi da qualche
secolo.
E loro in mare
ci sanno fare. Ma in questa storia ho deciso di usare
il maschile. Gli inglesi non possono più impedirmelo.
Non esisto più.
La memoria
della mia esistenza risale al momento in cui le
prime lamiere venivano saldate in quel cantiere
di Monfalcone. In quei tempi le navi in cantiere
crescevano in verticale. Dalla carena alle ordinate,
alle murate alla sovrastrutture.
Finalmente mi
hanno montato il cuore, un cuore potentissimo: la
somma di cuori di 55.000 cavalli!
E poi le
ciminiere. Non una dietro l’altra, ma appaiate come
due gemelle. E su, su fino all’albero che arrivava in
cielo. E poi mi hanno dipinto di bianco. Non
finivano mai di spennellare. Ero lungo
duecentoventi metri.
Ed è arrivato
il giorno in cui mi è stato chiesto di far vedere cosa
sapevo fare.
Mi
sono accorto quella mattina che il mio cuore
batteva forte e che mi muovevo sempre più velocemente.
I miei occhi, situati all’estrema prora (li chiamano,
chi sa perché, “occhi di cubia”) vedevano l’acqua
scorrere sulle due fiancate come due precipitosi
torrenti. Marciavo a ventotto nodi!
Ma è solo una
settimana dopo, da un porto chiamato Genova, che
doveva iniziare la mia vita di lavoro.
Ero stato
destinato a trasportare attraverso un Oceano oltre
milleduecento passeggeri in vari porti di un
continente meridionale. Li ho imparati a memoria i
nomi di quei porti.
L’ultimo si
chiamava Buenos Aires e si raggiungeva a fatica
attraverso un fiume fangoso dal nome immeritato:
“Fiume d’Argento“.
Più di duecento
viaggi in vent’anni.
Ho visto
sparire le navi importanti. Sono finite in maniera
dolorosa: bruciate da un incendio, vendute e finite
all’ancora in porti remoti, relegate a far da caserma
in rade deserte.
Io sono
sopravissuto per tanti anni ancora, anche quando si è
saputo che nessuno voleva più partire per quel
continente meridionale.
O, se dovevano
andarvi, lo facevano attraverso il cielo su
navi volanti molto più veloci e senza la fatica
di dover spingere tutta quell’acqua con la prora.
Gli uomini
hanno allora scoperto per me un altro mestiere: da
transatlantico che ero mi hanno trasformato in “cruise
ship“, in nave da crociera.
Il Comandante
che mi ha portato intorno al mondo, anche
attraverso tempeste, mi ha lasciato nel 1987.
Alla fine del
suo ultimo viaggio, all’arrivo a Genova, mi ha
consegnato al suo successore con queste parole: “She’s
all yours“, “E’ tutta tua”.
Ho continuato
per altri anni a viaggiare, con le mie due “C” sulle
ciminiere, attraverso mari ed oceani dal
Mediterraneo all’Atlantico, dall’Estremo Nord
all’Estremo Sud fino ad un continente di ghiaccio
chiamato Antartide.
Ed è venuto il
momento più triste della mia vita: sono stato venduto.
Ho sentito
di non contar più niente. Avevo poco meno di
trent’anni. Dicono siano tanti per una nave.
Mi è stato
cambiato nome. Niente più “C” sulle ciminiere sono
diventato la “Edimburgh Castle“ e ho lasciato Genova
per sempre.
Ho ancora
cambiato padrone e nome. Mi hanno dipinto tutto di
rosso. “Big Red Boat II” è stata la mia ultima
stravagante trasformazione.
Dopo
qualche tempo, il mondo era appena entrato nel
nuovo secolo, sono stato abbandonato.
Per più di
quattro anni sono rimasto legato ad una squallida
banchina in un’isola minore delle Bahamas.
A quel punto
non mi fregava più nulla di essere maschio o femmina.
Ho ancora avuto
un momento di speranza. Ho saputo, anche le navi
sanno, che un gruppo di uomini di buona volontà,
intendeva riportarmi a Genova perché vi
rimanessi ormeggiato per sempre come “ L’ultimo dei
Transatlantici”. A ricordo di una grande era nella
storia della navigazione.
Non se ne è
fatto niente.
Sono stato
infatti condotto in una orrida spiaggia al di là di
due Oceani e fatto a pezzi. Condotto un corno! Ci sono
andato io con quel quarto di cuore che mi era rimasto.
E’ stato come rinascere.
Come quella
prima uscita a Monfalcone.
Anche se i miei
occhi non vedevano il mare scorrere veloce sulle mie
fiancate. Adagio, adagio.
Era un viaggio
che volevo non finisse mai.
La mia ultima
spiaggia è Alang, in India.
Il mattatoio
delle navi.
Non sono più una nave ma
continuo a vivere in ciascuno di quei ferri, grandi
e piccoli in cui sono stato suddiviso e
riutilizzato: la carrozzeria di un’automobile, la
lamiera di una nuova nave, una macchina da guerra,
una scatola di sardine, un soprammobile.
Ognuna di
queste creature ha una vita propria: trasporta,
uccide, contiene, appare.
Ma io mi trovo
assai meglio in un piccolo pezzo di lamiera che
riposa sulla scrivania delle persone che mi hanno
voluto bene.
Una di queste,
che mi ha portato intorno al mondo, tutte le volte che
siede alla scrivania, mi afferra, mi trattiene e mi
sposta di qualche centimetro.
Chissà perché è
come una carezza.”
Quando armatori e navi si parlano
DA SETTE ANNI NEL NOSTRO
PORTO UNA NAVE CHE NON VUOLE MORIRE
Nel
febbraio 2009 in una memorabile conferenza alla
Biblioteca dei Parchi di Nervi su Armatori, marinai e
bastimenti il comandante Pro Schiaffino citò il
piroscafo Cor Jesu dell’armatore nerviese
Gazzolo.
Il Cor Jesu era
stato costruito negli Ateliers et Chantiers de la
Loire di Nantes nel 1908 e si chamava Lerdre, 115
metri di lunghezza e una stazza lorda di 3.885
tonnellate. Ai suoi tempi era una “barca” da carico
che a paragone con quelle di oggi era l’antesignana
del gigantismo navale.
Un giorno
l’acquistò un armatore genovese che lo battezzò Cor
Jesu e lo splendido piroscafo divenne quasi il simbolo
degli ex–voto marinari perché era scampato a tempeste
e mille difficoltà.
Nel 1964, dopo
quasi sessant’anni di carriera, approdò
definitivamente a Genova, in disarmo a Calata
Giaccone, in andana, quasi sotto la Lanterna.
Da allora fino
al 1971, nonostante la perdita della classe e
dell’elica, l’armatore non volle sbarazzarsene, lo
considerò una continuità ideale della sua vita,
l’amava perché la nave gli aveva fatto guadagnare
soldi e aveva ancora una grinta quasi a sfidare il
mare oltre la diga.
Avevo scritto
per Il Secolo XIX l’1 settembre 1971 un articolo con
la sua fotografia sullo sfondo della Lanterna dal
titolo “ Da sette anni nel nostro porto una nave che
non vuole morire”. Me l’aveva segnalata un suo
comandante e mi aveva raccontato del rapporto tra
l’armatore e la nave, dell’armatore che se la guardava
tutti i giorni dalla finestra di casa e che non voleva
venderla per ferro da demolizione. Perché? Forse tra i
due, nave e armatore, avevano trovato un linguaggio
per comunicare, e la nave gli chiedeva di avere ancora
fiducia in lei, che avrebbe ripreso il mare, chi sa…
E’ certo che le energie, le particelle che navigano
invisibili tra di noi giustificano rapporti
extraumani, creano complicità di cui siamo ignari
protagonisti e non lo sappiamo fino a che punto ci
condizionano, e chi ci parla e ci ascolta. Anche tra
armatori e le loro navi.
Ma il Cor Jesu
proprio quell’anno fu inviato alla demolizione, e
forse ero il responsabile della sua fine per aver
svelato con l’articolo sul giornale il
segreto dell’armatore.
Ho raccolto
questa storia nel libro “Però il porto è ancora
quello”, De Ferrari editore, 200, esaurito nella
seconda edizione.
Il 15 aprile
2010 sono stati assegnati a Roma al Circolo Ufficiali
della Marina Militare i trofei per la prima edizione
del Premio nazionale giornalistico-letterario
Carlo Marincovich.
La giuria
presieduta da Ezio Mauro, direttore di La Repubblica,
e composta da Patrizia Melani Marincovich , dai
dirigenti dell’associazione progettisti navali nonché
da altre prestigiose figure della letteratura e del
giornalismo nautico ha assegnato nella Sezione
Cultura del Mare il 1° premio a Decio Lucano
per “Quando le navi parlano…” pubblicato su DL
Newsletter nel novembre 2009.
Il Premio
consisteva in un trofeo, la ruota del timone in
carbonio del Farr 40 più volte Campione del Mondo,
offerto da Vincenzo Onorato - Team Mascalzone Latino.
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